Merano, dopo ore di treno. Una piccola città tra le ultime valli d´Italia. In stazione monto in fretta la bici e finisco che è già notte fonda. Decido di cercare un ostello. Chiedo a qualcuno, giro strade e lo trovo. Dietro il bancone c'è una signora con gli occhiali e i capelli in ordine che mi vede arrivare e sorride. Ricambio e chiedo una stanza. Dice che è tutto pieno, a Merano domani c´è la festa dell`uva.

Le chiedo allora se c`è un campeggio.

"Certo, in Piave Strasse."

Strasse? Ma non eravamo in Italia?

La signora sorride sempre, mi regala una cartina di Merano. Torno in strada e cerco di rintracciare Piave Strasse. Mi avvio su una ciclabile, noto che le ciclabili hanno cartelli e sensi di marcia. Tutto studiato e organizzato. Di fatto finisco in una via a senso unico, mi accorgo pure che sto andando contromano. Non solo, è la direzione sbagliata. Capirlo, frenare e girare è un attimo. Con la coda dell´occhio vedo che arriva una bici veloce: è una signora col casco, le luci e tutto. Vedo che frena, sgomma, per un attimo penso che scivola sulla brecciolina, ma invece svirgola, mi evita alla grande, mi supera e intanto mi dice mille cose in tedesco e continua a dirmele mentre se ne va. Abbiate pietà, sono abituato alle mulattiere. Qui le ciclabili sembrano strade di fianco alle strade. 

Arrivo al campeggio. Una signora con la sigaretta in bocca e gli occhi mezzi chiusi per il fumo analizza la mia carta d´identità. Mi consegna una tabellina col numero 665.

"Lo attacca alla tenda. Domani mattina, se vuole andare via presto, apro alle sette e trenta."

Mi sveglio impaziente di risalire le quote. Alle sette e venticinque sono dalla signora. Arriva puntuale, già con la sigaretta in bocca.

"Deve avere un buon motivo per svegliarsi così presto."

"Sto salendo in Val d´Ultimo."

"Ah, capisco."

Salendo in Val d´Ultimo incontro tre ragazzi in mountain bike, parliamo dell'itinerario. Harald, Thomas e Günter. Facciamo strada insieme e in particolare parlo con Thomas. Noto che tutti conoscono sia il tedesco che l´italiano. Thomas dice che il tedesco è la loro lingua e che durante il periodo fascista Mussolini impose l´italiano nelle scuole. Così finiamo a parlare di guerra mondiale, io gli dico che avevo una nonna che al focolare raccontava di lupi, inverni e rappresaglie. Che ricordava tutto, non scordò mai niente. Lui mi racconta che suo padre si arruolò volontario con l´esercito nazista, che in molti lo fecero, speravano di cavarsela in un anno, poi di tornare a casa. Fu inviato in Sardegna, quando si accorse cos´era la guerra, insieme ad altri dodici compagni rubò un aereo e cercò di fuggire. L´aereo fu abbattuto e sopravvissero in due soltanto. Il padre di Thomas è scomparso nel 2008, soltanto dopo e per caso Thomas ha trovato un vecchio diario ed ha saputo. Lo ascolto tra le pedalate e tra i respiri, poi per un poco siamo tutti in silenzio. 

Noi siamo quelli venuti dopo, eppure le storie di allora abitano i nostri giorni, le raccontiamo e ci sentiamo vicini e tutto l´odio ci spaventa come fosse nostro.

Thomas e gli altri ragazzi svoltano per una sterrata. Io continuo verso Santa Gertrude. Solo due ore dopo, sotto i larici millenari, un uomo tedesco si avvicina a me con la fotocamera e mi chiede di scattare una foto. Si avvicina alla sua signora e le passa un braccio sulle spalle. Dietro hanno i larici millenari. Hanno i capelli bianchissimi entrambi, le rughe per tutto il viso. Si guardano per un secondo e si sorridono. Scatto e penso che per oggi non c´è passato da ripensare.

I larici sono le uniche conifere che durante l´autunno perdono il verde e assumono colorazioni più calde. I tre larici di Santa Gertrude si trovano a circa 1430 metri di quota, in un bosco che durante gli anni ha avuto la funzione di proteggere i masi dalle valanghe. Nei secoli hanno protetto gli uomini. Abitano una zona di montagna frequentata dal sole per poco. Hanno saputo prendere il necessario da un luogo dove le estati sono fresche e gli inverni severi. Come gli alberi di sempre hanno ragioni per restare.

Il più grosso dei tre ha una circonferenza di 8,34 metri ed è alto 34,5 metri. Il più alto invece raggiunge i 36,5 metri. L´ultimo è stato colpito da un fulmine, si è fermato a 6 metri di altezza.  

Questo è l'inizio del viaggio attraverso le Dolomiti, alla ricerca di alberi favolosi.

L'autunno prende il bosco lentamente, albero per albero, foglia per foglia. Lo guardo fare, riconosco i colori risaputi. Cerco il rosso. 

La Val d'Ultimo è famosa per la presenza di masi ben fatti. E sono presenti molti larici. Prima di partire ho letto che il legno di larice è ricco di resina, che agisce come conservante. Per questo le scandole di larice venivano usate sui tetti dei masi e duravano decenni. Arrivo a Santa Gertrude nel tardo pomeriggio. È un paesino come molti: la chiesa in alto, la fila di pochi vecchi in piazza, un bambino col pallone. Dici una volta 'silenzio' ed è già sera, scriveva uno.

Campeggio oltre il paese. La notte è fredda e arriva l'odore della legna di abete che brucia nei caminetti. 

Sono stanco e piombo nel sonno, apro gli occhi di mattina. Il caffè al fornellino, il tempo di guardarmi intorno sì e no. Devo scendere verso Prissiano.

Il cartello a Prissiano dice: la vite più grande e quasi certamente la più antica del mondo. Il 'quasi' sembra uno scrupolo di perfezionismo o di prudenza. Nessuna stima dell'età precisa. Ciò che conta è che da tempo coltiviamo l'uva per preparare il vino. Il vino può riunire le persone di sera, nelle ore della libertà, oltre quelle obbligate del lavoro. Un'usanza che è rimasta. 

Gli uomini di oggi hanno messo a disposizione della vite di Prissiano un intero giardino, sono stati piantati pali e tesi ferri per dare campo largo alle foglie. Sembra un modo come molti per stare col proprio passato, così l'uomo può riconoscersi negli alberi che tramanda. 

Sono così gli alberi, possono cercarsi per una forma di somiglianza o di minima differenza. Si avvicinano, stanno in due. Sanno che due non è uno. 

Condividono il prato e il cielo. Sotto la terra le radici si toccano, deviano e cercano terra libera per di nuovo incontrarsi. 

In certi momenti basta un colpo di vento e si urtano, ramo con ramo, foglia con foglia. Se il vento è forte gli alberi fanno mosse a metà tra l'intenzione di un abbraccio e un inchino. 

Altre volte, nessuno potrebbe giustificarlo e nemmeno ammetterlo, crescono abbracciati e se ne stanno così. Cade la pioggia, torna la neve. Canta la civetta e passa la lepre. Nessuno sembra più farci caso, che tanto quei due sembrano uno.

Alberi in fila, cresciuti in massa e per similitudine sui fianchi delle montagne. Qualcuno direbbe: 

"Stanno insieme e vicini per mantenere le nuvole che quassù sono pesanti."

Un altro: 

"Sono antiche sentinelle che da sempre fanno la guardia alla valle." 

Tutti li intendono come unità, dimenticando che la coesione che li avvicina e li assomiglia nasconde le differenze. Uno ha radici fuori dalla terra perché non riescono a penetrare nel fondo roccioso. Un altro ha una tana di formiche sotto la corteccia, e quelle nemmeno il vento le toglie. 

Un altro è nato in un avvallamento e per arrivare alla luce del sole ha dovuto crescere di più. La sua altezza speciale è la risposta di giorni d'ombra. 

Ciascuno di essi inventa un modo per conservarsi.

Così, più che un accostamento di similitudini, il bosco pare la coesione di singolarità. Il luogo dove prende una posizione definitiva l'indispensabile unicità di ciascuno.

Sono diretto verso la sequoia di Faè, continua il mio itinerario alla ricerca degli alberi. Preferisco i luoghi dove la realtà sembra rallentare e sospendersi. Capita nei paesi abbandonati. Capita davanti agli alberi antichi che portano addosso i segni del passato e sono pronti a ogni futuro. Stanno così al centro del tempo. 

In Val Fiorentina si respira di nuovo un'aria paesana. A Pescul una donna mi saluta dal balcone:

“Do' va co' sto freddo?”

Le sorrido e penso alla notte scorsa. Un sito tra i più comuni di previsioni meteo dava -12.5° C come temperatura notturna sulla Marmolada. Io certamente ero più in basso della cima e non ho misurato i gradi. So soltanto che avevo in tenda due borracce piene per metà e al mattino l'acqua all'interno era ghiacciata in entrambe.

Campanili appuntiti, pascoli verdi, vacche. Fontane di legno intagliato da cui esce un'acqua continua. Le Dolomiti sono montagne vive e abitate. Al mattino si possono incontrare davanti ai masi i barili della raccolta latte in attesa che l'autocisterna passi a ritirarli. Prima dell'autunno sono stati falciati i campi da cui si preleva il fieno e restano spazi e spazi di prati verdi sui quali si depositeranno le gelate invernali. 

Si vedono trattori girare con carichi di legname da ritagliare e sistemare in mucchi molto ordinati davanti alle case, con metodo così magistrale che mi sono ritrovato a fotografare cataste di legna. Stesse misure dei pezzi, stesse forme, forse stesso peso addirittura. Lavori ben fatti.

La roccia nuda sopra i boschi di conifere presenta una bellezza pulita, distinguibile, da credere che la montagna sia sempre così pura. Compaiono a sorpresa le macchie bianche dei nevai, mentre il ghiacciaio della Marmolada è spalancato sotto il bordo del cielo. Decido di accamparmi vicino Passo Fedaia. Di notte viene freddo, le nuvole scendono. Lampi improvvisi illuminano il buio. Prendo sonno nonostante il vento che tormenta la tenda. 

Di mattina trovo la neve, una neve che su quella quota è subito ghiaccio, vetrato nei punti di scolo della montagna. Risalgo il pendio per portarmi sulla strada e soltanto allora, guardandomi indietro, mi accorgo di aver dormito di fianco a quella che sembra una rete di trincee della Grande Guerra. La neve ha abbassato la vegetazione, si vedono gli scavi che nel tempo ricoperti. Mi fermo. Certe volte la storia viene fuori dai libri, vera e inaspettata come una notte di bufera. La Grande Guerra iniziava nel 1914, cento anni fa. Forse potrebbe capitare di trovare un proiettile, una scheggia, prove di uno scontro tra eserciti. Per anni tra queste montagne i recuperanti cercavano e vendevano il metallo sparso ovunque e sepolto dalle stagioni. A volte qualcuno saltava per un ordigno inesploso. Eppure si trattava di un lavoro redditizio allora, come ben racconta il film di Ermanno Olmi, alla sceneggiatura del quale partecipò Mario Rigoni Stern, l'autore de Il sergente nella neve, uno di quei libri che si leggono da ragazzi e si apprezzano da adulti.

Le raffiche di vento gelido mi ricordano che c'è poco da starsene a meditare. Comincio a muovermi piano, spingo la bici nella neve. Nei tratti pianeggianti salgo in sella. Il vento non si ferma e non cede. In ogni pedalata c'è più pazienza che forza. Come sempre le difficoltà non vanno combattute ma accettate. La nostra maggiore forza è la nostra migliore pazienza.

Il Fiume Sacro della Patria oggi è poco più di un torrente. Ovviamente penso alla Grande Guerra, ancora quassù. Ovunque affiorano tracce di quel conflitto che ho conosciuto attraverso la letteratura più che dai libri di storia. 

Cento anni fa i ragazzi lasciavano le case e venivano a morire lungo i confini del nord-est. Guerra di trincea, uno dei maggiori massacri che l'umanità ricordi. Ventenni all'assalto per conquistare cinquanta metri di montagna e presto falciati dal fuoco delle mitragliatrici. Un meccanismo a sangue destinato ad accadere in questi territori giorno per giorno dal 1915 al 1918.

In Addio alle armi Hemingway dice che Napoleone avrebbe battuto gli austriaci sulle pianure. Non li avrebbe mai combattuti sulle montagne. Li avrebbe lasciati scendere e li avrebbe battuti intorno a Verona.

Come sempre sono le sfumature a dare significato alle cose. E i miei sono pensieri da cento anni dopo. La verità è che la sera scende sul Piave scura e pesante come un senso di colpa, perchè porta il presentimento di nuove guerre. Da pensare che non ci sono conflitti passati e moderni, ma un unico che dura da sempre e durerà sempre. Gli eserciti si riformano, si spostano. Cambiano tecnologie, armamenti. Si decidono altre bandiere da difendere, nemici ennesimi. La nostra guerra totale continua.

Le sequoie giganti sono originarie della California, sono conifere maestose che riescono a vivere per duemila anni e raggiungere altezze stupefacenti, anche oltre i cento metri. 

Questa di Longarone è stata piantata nel 1840, è una delle prime approdate in Europa dagli Stati Uniti. Oggi è alta circa 33 metri e vanta una circonferenza di 5,75 metri a petto d'uomo.

In paese mi hanno detto che negli anni cinquanta del secolo scorso è stata colpita da un fulmine che le ha portato via otto metri di cima. Ma un fulmine può sembrare niente di fronte al resto. Il 9 ottobre 1963 un intero costone del monte Toc precipitò nel lago sottostante generando un'onda che distrusse l'abitato di Longarone e spazzò via case, alberi, vite umane. In termini di potenza l'onda del Vajont venne paragonata ad un'esplosione atomica. La sequoia subì l'urto, ma resistette. In paese mi hanno detto che qui intorno non era rimasto più nulla tranne lei. 

È ancora qua, con il tronco segnato da una cicatrice. Gli alberi le conservano addosso come le persone. In quel punto la corteccia non è mai più tornata e di stagione in stagione si riforma una patina di muschio chiaro.

Così la sequoia di Longarone è l'avamposto temporale di un passato di tragedie, una testimone grandiosa del nostro millenovecento. La sua figura verdissima emerge da uno sfondo di vegetazione in disordine e montagne vicine. Vive al centro di un prato. A renderla unica sono le sue sciagure e la sua forza. Favolosa e sola, rappresenta il punto di fine del mio viaggio.

Mentre pedalo sugli ultimi chilometri ricevo la chiamata di un amico cicloviaggiatore che vive in Veneto, Adriano. Segue il blog e ha visto che sono tra le sue montagne. Mi propone di fare un giro insieme dopo la fine del mio itinerario. Mi raggiungerà a Longarone, da lì si andrà ad est, ancora, verso Barcis. 

Ci siamo conosciuti qualche anno fa durante un viaggio in bicicletta in Lapponia. È un gran piacere vedere Adriano. Mi racconta della sua bici: un telaio in acciaio di una vecchia mountain bike aggiustato con portapacchi, dinamo e luci, una sella comoda di una marca famosa. Un bel lavoro. Parliamo molto lungo la salita, da un po' non ci vediamo e abbiamo cose da dire: montagne, vecchi e nuovi mestieri possibili sulle Alpi, altri luoghi dove pedalare. 

Soltanto quando passiamo di fianco alla frana del Vajont restiamo in silenzio, se capita scambiamo impressioni sottovoce. Dove una volta stava l'acqua ora c'è un mucchio che supera il bordo della diga. Sopra sono tornati gli alberi.

Adriano conosce la zona e anche com'è andata la faccenda dell'onda, del disastro di Longarone. Mi racconta, mi indica.

 

Ci fermiamo in un bar che è anche trattoria. Dentro ci sono due donne che conversano, sono sedute una di fronte all'altra, di fianco al bancone. Si somigliano. Forse sono madre e figlia, forse una volta era la più anziana a gestire la trattoria. 

Usano il loro dialetto e non capisco. È certo che le persone che abitano le montagne continuano a raccontarsi fatti. Sono abili anche, hanno nella voce i tempi del racconto, la calma che ci vuole e le pause giuste per farsi seguire. A valle invece le persone dovrebbero concedersi più tempo per le storie, per le proprie e per quelle degli altri.

Spesso l'anziana sbircia nella nostra direzione. Dev'essere una pronta ad individuare nello straniero gesti che possano darle indizi sul carattere. Che sia un tono di voce o un'espressione. Me ne accorgo e provo a mantenere una faccia più anonima possibile per darle filo da torcere, poi le sorrido all'improvviso. Lei si sente scoperta, ricambia e accenna un saluto con la mano.

La giovane ci serve una cioccolata calda. E dopo, gentile ci scatta una foto.

Ripartiamo. La giornata è umida, il freddo si fa vivo ogni volta che ci fermiamo. Siamo già in Friuli, una terra che non ho mai visitato. Le montagne in lontananza cambiano volto. Non sono più le cime di roccia pulita che spuntano dai boschi di abeti e larici, e stanno contro le nuvole. Sono invece montagne con vegetazione irregolare, grigie, a chiazze verdi, montagne che si vedono come sono e non vogliono piacere a nessuno. Le Dolomiti Friulane. Penso che più a est, verso il confine sloveno possano abitare lupi, orsi. Mi piace il Friuli e mi piacerebbe raccogliere informazioni per un altro viaggio.

Entriamo ad Andreis, paese famoso per i Daltz, ovvero delle scalinate esterne con assi di legno che le delimitano. In passato venivano utilizzati per essiccare i prodotti della terra. Andreis è un paese silenzioso, ci sono abitazioni di pietra e gerani alle finestre. E le montagne in fondo. Sempre.

Sembra un altro posto da inverno, uno di quei tanti che si possono pensare sotto un velo di neve. Le persone nelle case con un libro, una stufa, una manciata di noci sul tavolo. È quello che immagino. Quello che so.

Ad Andreis finisce il nostro giro. A me e Adriano resta da pedalare fino a una stazione dei treni utile. Poggiare le bici su uno spigolo qualunque e bere una birra insieme.