Fonte: sito web www.garganok.it
Fonte: sito web www.garganok.it

In geografia la terra che entra nel mare è un promontorio. Tanto mare intorno, ma il Gargano è asciutto, sulle quote è il contrario dell'acqua, niente ruscelli, nè fontane. La campagna è a seccare nella fornace estiva. La costa pare una linea di differenza tra il blu del mare e il chiaro dei pendii di pietre.

A Cagnano Varano, punto di partenza dell'itinerario, chiedo alla panettiera di riempire le mie borracce. Occhi e ricci neri, una gentilezza spontanea nei sorrisi. Il mare conta, educa all'accoglienza. Il mediterraneo è vicino, si capisce da un indizio di salsedine che profuma il vento caldo. 

Salgo sul monte Calvo, una gobba spelata, senza alberi. Si vede il lago di Varano e la linea di terra che lo separa dall'Adriatico. Sono poco più di mille metri di quota. Dovrei sapere che qui le cime somigliano a isole, sono visitate dal volo dei gabbiani, dai primi venti di settembre che cambiano la stagione. Le Tremiti sono ferme sulla parte sinistra dell'orizzonte, sono lontane, sono ombre.

Si sentono i campanacci delle vacche podoliche, frugano col muso la terra dura dei campi mietuti, le sterpaglie, rosicchiano rami. Mangiano come i cinghiali. Vacche magre e resistenti per ambienti difficili, ma capaci di un latte profumato e ottimo per il caciocavallo da mettere a invecchiare. 

Monte Calvo
Monte Calvo

Luoghi di pietre, in fila nei muretti a secco che contengono i campi, sparse tra i piedi in molte forme. Puoi prenderle a calci, o posarci una mano sopra e sentire quanto calore trattengono. Le pietre s'impregnano di sole, per una virtù spontanea, o una forma di coscienza. Gli uomini di prima le distribuivano tra i filari delle vigne, perchè facevano caldo nella terra, limitavano la condensa, partecipavano al vino.

Antiappennino, Appennino è sempre, è un balcone alto sul mare, un'appartenenza alle pietre, lo scrupolo antico di prepararsi all'inverno. 

Tra i vicoli di Cagnano incontro un'anziana seduta allo spigolo di un muro. Le chiedo se sta lì per l'intero giorno. Si solleva piano il bordo della gonna fino a sopra il ginocchio. Nel gesto tutto il pudore che può una donna del Sud.

"Guarda qua, mi vergogno pure."

Indica una cicatrice di fianco alla rotula, il segno di una vecchia operazione.

"Per questa sono a guardare il muro".

Le dico che vengo dall'Abruzzo, altra regione di montagne sul mare. I giovani sono andati via e ora resta un luogo di nonne. 

"Una foto, posso?"

"Con tante in giro vieni a fotografare una vecchia?"

"Mi racconta qualcosa?"

"Fije me, manco so l'italiano".

"In dialetto va bene. Una ninna nanna".

Ci pensa. 

"Ninna ninna ninna ninna, ninna nanno,

durme lu fije mje, core de mamme.

E ninna ninna ninna, ninnarello

u lupe c'ha magnate la pecurello.

E ce l'ha magnate che tutte la lana

e povere pecurare, com hanna faje."

Ogni verso parte col sorriso, tanto per non prendersi sul serio con uno sconosciuto, credo, per creare un distacco leggero da quello che dice. La voce finisce in cantilena su ogni rima, trasmette il piccolo orgoglio per una cosa eseguita molte volte. Un canto spontaneo, un fiato di parole che stanno bene tra i vicoli stretti, all'ombra di un muro bianco, o come dentro una finestra aperta dopo mezzogiorno. E stanno bene con il nero che porta addosso. Penso che i suoni si possono descrivere con i colori.

 Guarda me, alla fine, zitta.

"Capito?"

"Sì".

Un sedile di pietra sotto un albero di fico. Michele è seduto e tiene d'occhio le capre al pascolo sulla statale che porta a Cagnano. Il secondo pastore che incontro. Il primo era sul monte Calvo, un ragazzo rumeno in compagnia di una decina di cani smagriti, col pelo a chiazze. Michele ha un paio di cani piccoli e svelti che subito sono ad annusarmi. Dice che ci sono pochi predatori, si tratta spesso di randagi, non lupi. Lui ha capre garganiche, dal pelo nero liscio. Si arrampicano a brucare le foglie dei fichi, salgono in bilico sulle pietre, saltano gli steccati. Sono sorelle vicine degli stambecchi.

Turisti frettolosi passano in macchina, schivando le capre, frenano, sbracciano. Gli chiedo se lo disturbano.

"Non m'interessa. Su questo lato di montagna pascolava mio nonno, poi mio padre. Ora io. L'asfalto è arrivato dopo, quando noi c'eravamo già. Dura un mese, poi se ne vanno, questa strada si riempie di merda di capre."

In fondo all'orizzonte c'è il mare di sempre, blu con una scia di luce brillante. Guarda fino a lì ogni tanto, i pastori sanno che gli occhi vanno più lontano dei passi, hanno più fiato dei polmoni.

"C'è un modo per diventare ricchi nell'entroterra?"

"Da una vita me lo chiedo e ci provo, non ci sono mai riuscito. Di sicuro ho sbagliato mestiere, dovevo lasciar perdere le capre".

"Noi della nuova generazione di che viviamo?"

"Lo chiedi a me? Andate a lavorare per gli uffici".

"E il formaggio chi lo fa?"

Solleva le spalle.

Capra garganica
Capra garganica

Chiedo come mai ha solo capre del Gargano.

"La resa è inferiore a quella delle altre al pascolo in Italia, considera la metà. Ma il latte è migliore e io vendo il formaggio. O lo conservo per l'inverno".

Noto il pelo liscio e scuro, chiedo se c'è un modo di usarlo, di tosarlo d'estate.

"No, la capra non si tosa. La pecora sì, ma ora non si tosa più nemmeno la pecora. Un chilo di lana si vende per venticinque centesimi. Un euro quattro chili di lana. Sai quanto lavoro per quattro chili di lana? Così nessuno tosa le pecore per vendere."

"Come mai così poco?"

"La nostra lana filata pizzicava addosso, si preferiva quella delle pecore Merino, più soffice a contatto con la pelle. Nessuno più tosa, c'è il problema anche della lana come rifiuto".

"Si getta via?"

"La lana non brucia, prova ad avvicinare una fiamma. Si lascia nella terra".

Una buona maglia stacca il sudore che non si raffredda addosso con l'aria di quota. In bici la uso sempre.

Trascorriamo un buon momento insieme e mi spiace dover salutare. Dico che presto tornerò, che non siamo così lontani. Una bugia. Ultimamente la dico sempre, non sopporto gli addii. O forse parla la mia speranza, l'idea viva di ritrovarsi un pomeriggio per caso e stare di nuovo a raccontarci. Parlare ancora del mestiere, del piacere che vale un giorno di montagne e di sole in faccia. Anche se è dura, è dura per tutti, siamo nello stesso tempo.

Lago di Varano
Lago di Varano

A Cagnano ascolto il racconto della leggenda di Uria, città antica e corrotta, per questo odiata da Dio che pensò di distruggerla. Una ragazza di nome Nunzia rappresentava l'unica anima rispettabile in mezzo a tanto male. Un giorno, mentre lavorava all'arcolaio, udì una voce che l'avvisò di fuggire perchè Uria sarebbe stata sommersa. E di fatto Uria finì sotto il lago, qualcuno crede ancora che sul fondo ci siano vecchie mura.

Il lago di Varano è diviso dal mare da un'isola di terra lunga undici chilometri e larga ottocento metri. Si tratta di un lago di acqua salata, comunicante con l'Adriatico.

L'acqua dolce e ferma dei laghi. Qui non è dolce perchè comunica col mare. Non è ferma, si solleva con le maree, si agita perfino con il vento da Est. I pescatori escono a bordo dei sandoli che sono barche tipiche, lunghe ma capienti per contenere il pescato. Non ho incontrato pescatori, forse sono schivi. Forse sono anziani o stranieri come la gran parte di quelli che oggi hanno un mestiere per le mani. Escono presto e a metà giornata sono a riposare. Dovrei svegliarmi di notte, fare per poco la stessa vita per conoscerli. Tentare una somiglianza minima, meritare un incontro.

Intanto vedo i segni dei pescatori del passato. La roccia scolpita a scalini fino a piccole grotte, rifugi alti sull'acqua. Vecchie imbarcazioni portate all'asciutto, in riparazione, con la vernice nuova sui fianchi. Orti curati a livello del lago. Melanzane, fragole. L'acqua sorge dalla collina, vien fuori dalla roccia, tende al lago ma prima irriga, fa il giro delle radici, riempie i frutti. Limpida e fredda. Disseta e nutre, ora e prima.

Mi ritrovo a fotografare porte vuote, la contraddizione di una casa lasciata, costruita per resistere al tempo ma diventata nel tempo inutile. Una casa vuota è un vicolo cieco, dentro non s'incontra nessuno. Si può trovare la propria solitudine, forse si va ad incontrarla, a riconoscerla. Di notte ci entrano i cinghiali, i cani randagi. Di mattina presto ci va uno di quei vecchi che recuperano tutto, a prendere due pietre da aggiungere su un muro, o come base per il recinto del pollaio. Uno di quei vecchi che sanno a memoria le ninne nanne e che le cantano agli stranieri per farsi conoscere. Ne metto qui un'altra ascoltata a Carpino, nel dialetto che sempre affina le parole.

 

Oi ninna ninna ninna nanna

stu figlio ce vo' durmì vò faà la nanna

Janne Madonna e Janne ti lu pigli

e purtalo passijanno a chistu figlio

 

E ninna ninna e ninna vola

pi li campanelli di Santu Nicola

Santu Nicola e pe lu munno jeva

e tutte li criature l'addurmeva

 

E ninna ninna e ninna ninnarella

lu lupo s'ha magnato la pecurella

E ninna ninna e ninna nanna

lu bene de li figli songo li mamme

 

E ninna ninna e quanto te voglio bene

se bene non te volevo io non te cantavo